Ultima chiamata per la guerra del latte: intervista al sociologo Nicolò Migheli
C’è troppo latte ovino rispetto a quanto ne serve in commercio: e se l’offerta supera la domanda, allora il prezzo scende. È il mercato, bellezza: il latte dei pastori sardi è in eccesso, non vale più di quanto costa produrlo. Sono i calcoli spietati dell’economia di mercato a stabilirlo: le dodicimila aziende sarde che allevano oltre tre milioni di pecore destinate alla produzione di latte lo versano per la maggior parte, insieme alle aziende toscane e laziali, ai produttori di Pecorino romano, uno dei pecorini Dop più venduti (che per il 60 per cento prende il volo verso gli Stati Uniti) e in quantità più modeste per il Fiore sardo e il Pecorino sardo. Nell’anno passato la quantità di Pecorino romano prodotta in Italia è arrivata a 34 mila tonnellate: il 22 per cento in più rispetto alla cifra di un anno prima, secondo i dati del Clal, il consorzio che controlla l’andamento di prezzi e produzioni casearie in Italia. Quasi 10 tonnellate in più rispetto alle 25 su cui si assesterebbe un costo equo della materia prima. Parallelamente, rispetto al 2017, è aumentata anche la produzione di latte ovino in Sardegna. Troppo latte, troppo Pecorino romano, nel frattempo cala la richiesta: ecco i motivi dei 60 centesimi nelle tasche dei pastori.
Il prezzo, poi, non è un valore stabile ma cambia a seconda dei periodi e dell’andamento del mercato: il Clal registra una chiara parabola discendente da un anno a oggi. Fino a maggio 2018 il Romano costava all’ingrosso 7,65 euro al chilo, a ottobre arriva a 6,16 euro, a dicembre 5,90, a metà gennaio il costo di un chilo è di 5,80 euro. Di questi, considerato che per fare un chilo di formaggio ci vogliono 5 litri di latte ovino e che un litro oggi è pagato 60 centesimi, solo 3 euro andranno ai produttori di latte; gli altri resteranno ai caseifici.
Possibile, però, che non ci sia una alternativa? Lo abbiamo chiesto a Nicolò Migheli, sociologo che da anni si occupa di sviluppo rurale e in generale di cultura, storia e tradizioni della Sardegna, che pochi giorni fa ha affidato le sue riflessioni in un post sul sito SardegnaSoprattutto. “Siamo sull’orlo della catastrofe – ha scritto – che travolgerà produttori e trasformatori. Possiamo evitarla, però è l’ultima chiamata”.
Migheli, partiamo dalla notizia di lunedì il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha promesso una soluzione in 48 ore (che, mentre scriviamo, sono quasi scadute). Possibile?
Il prezzo del latte subisce alti e bassi da 120 anni, da quando in Sardegna si fa Pecorino Romano. Se il ministro dell’Iterno ha una soluzione da Mandrake ben venga.
La maggior parte del latte sardo è usata per fare il Pecorino romano, comprato soprattutto dagli Stati Uniti: se questo export cala le conseguenze arrivano fino a noi. Perché non si pensa anche agli altri nostri prodotti di eccellenza, cioè il Pecorino sardo e il Fiore sardo?
È una questione annosa, le quote di Pecorino sardo dop sono inferiori al loro potenziale. I trasformatori marchiano con la denominazione protetta solo la parte minore della loro produzione. Se si aderisce ad un qualsiasi marchio europeo occorre rispettare un disciplinare, subire controlli del Consorzio di Valorizzazione, molti trasformatori preferiscono operare con i loro marchi aziendali su cui hanno investito negli anni. Il risultato però diventa controproducente, con un prodotto a marchio Ue si ha la possibilità di spuntare prezzi più alti. Mi chiedo anch’io perché non lo facciano. Il Fiore sardo ha bisogno di un ragionamento diverso: è il formaggio più antico della Sardegna; negli anni si è ridotto alla sola Barbagia, è il formaggio dei pastori, quello fatto negli ovili, le quantità negli ultimi anni sono basse. Anche qui vi è la presenza degli industriali perché il disciplinare lo permette, con il risultato di rendere quello fatto dai pastori poco competitivo. In questo ultimo anno vi sono state polemiche tra industriali e pastori, si spera che vengano superate presto perché è un formaggio che ha ottime possibilità di essere venduto a prezzi interessanti.
I pastori sardi producono un latte di altissima qualità, ma pare che gli standard del mercato non ne tengano conto.
A livello industriale si controllano i parametri del grasso, caseina, proteine, cellule somatiche e carica batterica, mentre vengono tralasciati quelli che invece fanno la reale differenza come l’alta concentrazione di CLA, un acido grasso polinsaturo che impedisce la crescita del colesterolo cattivo, parametro difficile da mantenere per le produzioni industriali di massa se si lavorano milioni di litri di latte. Esistono imprenditori coraggiosi che invece l’hanno fatto. Significa effettuare controlli costanti sulla materia prima, caseificarla a parte, procedere a certificazioni costanti. Operazioni che costano anche perché poi bisogna comunicare quelle virtù ai consumatori. Tutto ciò però ha una ricaduta positiva sul prezzo del latte pagato all’allevatore che dovrebbe essere, e lo è, più alto. Invito chi ci legge a fare un salto in un negozio e verificare la differenza di prezzo di un pecorino CLA, a Cagliari si trova, rispetto a uno comune.
È davvero l’ultima chiamata per la vertenza pastori? Come possiamo rispondere?
Agendo, operando una grande riforma del settore. Credo che in questo caso il pubblico possa fare poco se non garantendo un quadro di riferimento certo, la soluzione dei problemi è nelle mani degli attori della filiera. Sono loro i protagonisti e solo loro possono trovare le soluzioni. Credo che alla fine sarà così perché nessuno vuole la scomparsa di un comparto così importante per l’economia della Sardegna.
Francesca Mulas
(foto da enricolobina.org)
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